Lo stato di quarantena, da cui siamo stati in minima parte affrancati a partire dal 4 Maggio, è stato spesso paragonato allo stato di guerra. Nell’era del digitale ogni grande evento porta con sé opinioni, giudizi e contraddizioni di ogni genere, incentivati dalla circolazione di false notizie e pareri di opinionisti non specializzati; l’associazione tra pandemia e guerra, in particolar modo nel mese di Marzo, s’è fatta credenza diffusa, come a voler richiamare lo spirito di buon cittadino degli italiani.

Non nascondo di essere stata profondamente infastidita dalla frase che ha tanto circolato nel web durante le prime settimane di restrizioni I nostri nonni hanno fatto la guerra, a noi chiedono solo di stare a casa, e le ragioni sono più d’una. Anzitutto mi ha disturbato l’uso di un evento tanto doloroso di cui solo una parte della popolazione ha realmente esperito la drammaticità, a scopi intimidatori; un uso quasi mediatico del senso di colpa che tramite l’ashtag #iorestoacasa ha spinto la maggior parte delle persone a non riflettere su ciò che veniva loro imposto, dando vita a capri espiatori periodicamente rinnovati e dispute incontrollate.

Oltre a ciò, proprio non riuscivo a comprendere in che modo due fatti storici talmente diversi tra loro potessero così facilmente essere accostati: davvero bombe e virus possono essere oggetto di paragone? Eppure questo pensiero è stato come iniettato a mo’ di medicina nelle nostre menti e forse inconsapevolmente ha accresciuto in noi un inusuale senso del dovere.

In questi giorni ho seguito l’acceso dibattito riguardante la didattica a distanza e in emergenza, e molti docenti raccontano che alcuni studenti si sono più volte interrogati su quali siano le somiglianze tra le guerre e il covid19. I ragazzi che oggi non possono andare a scuola, vedere i loro compagni e i loro insegnanti, o fare la ricreazione come prima, sentono di fare parte di un grande evento storico; in loro si è gradualmente sviluppata una nuova consapevolezza, ossia quella di essere non solo lettori ma anche partecipanti della Storia.

Ciò che accomuna due esperienze tanto distanti dunque, è il fatto di farci sentire protagonisti di un cambiamento epocale. Slavoj Žižec ne Il coraggio della disperazione1 afferma:

Solo quando siamo disperati e non sappiamo più cosa fare possiamo praticare il cambiamento: ci occorre attraversare il punto zero della speranza.

Sono i momenti di crisi che da sempre hanno spinto uomini e donne a un ripensamento delle proprie abitudini e posizioni; basti pensare a quanto le due guerre mondiali abbiano influito sulla messa in discussione del ruolo sociale della donna, soprattutto in determinate regioni del centro e del nord Italia. Negli ultimi due mesi sono stati molti i presupposti che ci hanno spinto a ragionare in termini di “prima” e “dopo” ed è proprio da questa nuova consapevolezza storica che dovremmo ripartire. Abbiamo potuto constatare ad esempio, come la reclusione forzata abbia messo in luce il persistere nel nostro Paese di violenze domestiche contro le donne, e anche quanto la solidarietà tra donne giochi in questo ambito un ruolo fondamentale. Quest’osservazione, come tante altre emerse in questi mesi, può rivelarsi un punto di partenza per una nuova direzione.

La così detta fase 2 si trova forse nel mezzo del “Prima Covid19” e “Dopo Covid19”, e rappresenta una sorta di momento filtrante al di là del quale spetta a noi decidere cosa lasciare passare e cosa invece lasciare indietro.

15/05/2020 Francesca Cozza

1SLAVOJ ŽIŽEC, Il coraggio della disperazione, Cronache di un anno agito pericolosamente, Ponte alle Grazie, Milano, 2017, pag 9

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